COSMOLOGIA CLASSICA 1.
IL MODELLO SCIENTIFICO Due sono gli obiettivi che si prefigge la
scienza: da un lato la ricerca, attraverso l'osservazione e la sperimentazione,
delle caratteristiche fondamentali dei fenomeni naturali; dall'altro la loro
classificazione e interpretazione. Quest'ultima attività, che rappresenta
l'aspetto più creativo del lavoro dello scienziato, si realizza attraverso la
formulazione di particolari strumenti concettuali detti «teorie» e «modelli». Una teoria
scientifica non è, come
comunemente si pensa, semplicemente una supposizione, ma un sistema di pensiero
ben fondato, un insieme di proposizioni in grado di spiegare, in modo
plausibile e coerente, le osservazioni di determinati fenomeni (naturali o
conseguenti ad esperimenti di laboratorio), di giustificare le regolarità da
esse derivate e di organizzare queste ultime all’interno di una struttura
logica e unificante. Si intende invece per modello
scientifico (uno strumento di analisi molto diffuso nel campo delle scienze
naturali) la visualizzazione semplificata e incompleta di una realtà
invisibile, e quindi sconosciuta, mediate una o più immagini tratte
dall'esperienza quotidiana. Un tipico esempio di modello scientifico è la
struttura planetaria dell'atomo o la scala a chiocciola con la quale si usa
rappresentare il DNA. Un buon modello (e una buona teoria) deve
rispondere a due richieste fondamentali: 1. - deve descrivere con precisione le
osservazioni attraverso le quali il modello stesso è stato costruito; 2. - deve
fare predizioni, ben definite, sui risultati di future osservazioni. Un modello scientifico, pertanto, per quanto
possa apparire coerente e profondo, non rappresenta affatto la realtà
oggettiva, proprio come un modellino della Ferrari non rappresenta la «Rossa di
Maranello», piena di congegni elettronici e di complicati dispositivi che le
consentono di raggiungere e superare i 300 km/h sulle piste del Gran Premio.
Esso, tuttavia, non è nemmeno qualcosa di arbitrario, frutto esclusivo
dell'immaginazione dello scienziato, ma un'idea che trae origine
dall'osservazione attenta e accurata della realtà materiale, alla quale peraltro rimane profondamente legato.
Inoltre un modello, come d’altra parte
una teoria, non è eterno poiché, per sua stessa natura, deve essere
falsificabile: il che significa che deve essere sempre possibile
immaginare un'osservazione o un esperimento che siano in grado di confutarlo.
Qualora un'osservazione o un esperimento, eseguito materialmente, si dimostrassero
effettivamente in disaccordo con le predizioni del modello, questo decadrebbe e
verrebbe modificato o, in casi estremi, sostituito integralmente con un altro. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, si dice
che un modello scientifico (o una teoria) possiede un elevato «contenuto
euristico» quando è in grado di prevedere un gran numero di fatti la cui
veridicità sarà dimostrata in un tempo successivo, e cioè, o quando si
verificherà concretamente l'evento previsto, oppure quando l'uomo sarà entrato
in possesso degli strumenti tecnici adeguati per il controllo del dato teorico. Anche i modelli cosmologici che si susseguirono
nel tempo ovviamente non avevano la pretesa di rappresentare l'Universo come è
in realtà. Essi erano semplicemente delle costruzioni concettuali che servivano
per descrivere in modo sintetico ciò che l’uomo, con lavoro meticoloso ed
ordinato, era riuscito a conoscere, fino a quel momento, del mondo che lo
circonda. 2.
LE PRIME OSSERVAZIONI DEL CIELO Ogni epoca e ogni civiltà ha avuto il suo
modello di Universo, tuttavia l’uomo delle caverne quell’uomo che aveva
dipinto e scolpito sulle pareti delle sue abitazioni tutto ciò che
rappresentava l’esperienza quotidiana, dal bisonte ferito al cacciatore che
scagliava la lancia contro la preda, non rappresentò mai un solo fenomeno
celeste, nemmeno ad esempio il Sole, la Luna o un gruppo di stelle.
Evidentemente l’uomo cacciatore e raccoglitore non aveva bisogno della
conoscenza dei fenomeni celesti per condurre la propria esistenza. Le tribù primitive conoscevano una porzione
molto limitata del pianeta, quella in cui abitavano ed entro la quale si
spostavano per procacciarsi il cibo. Quella regione, coperta dal Cielo che di
notte appariva stellato, rappresentava, per loro, l’intero Universo. Le stesse
stelle non dovevano essere molto lontane e comunque ad una distanza tale che la
voce potesse raggiungerle e venivano identificate con divinità che si
prendevano cura del genere umano il quale sarebbe stato punito se si fosse
comportato male e premiato se si fosse comportato bene. Il tuono, il lampo, le
comete, erano tutti elementi di un linguaggio celeste, spesso premonitore, di
cui l’uomo primitivo non poteva non tenere conto. La maggior parte dei fatti che si verificavano
sulla Terra apparivano casuali e imprevedibili, mentre in Cielo gli astri
seguivano percorsi sempre uguali a sé stessi e ciò dava garanzia di stabilità
e di ordine. Anche sulla Terra, in verità, alcuni fenomeni importanti per la
sopravvivenza del genere umano come la semina, il raccolto o la nascita del
bestiame avvenivano sempre negli stessi periodi dell’anno, quindi vi doveva
essere un rapporto stretto fra la posizione assunta dagli astri in Cielo e la
vita degli uomini. Solo la convinzione che esseri umani e astri si potessero
influenzare a vicenda giustificherebbe, infatti, il ricorso a pratiche e
cerimonie magiche per invocare la pioggia e placare l’ira degli dei che,
quando si spazientivano, facevano tremare la Terra e lanciavano lava infuocata
dai monti. Questi riti misteriosi e magici ebbero grande sviluppo fin dagli
albori della civiltà antica, ma in alcuni casi si protrassero fino a tempi più
recenti. Quando l’uomo diventò sedentario e cominciò a
coltivare la terra, sorse in lui la necessità di individuare un sistema in
grado di predire i tempi migliori per la semina e per il raccolto. Questa
esigenza è presente, molti secoli prima di Cristo, in tutte le civiltà, da
quella cinese all’indiana, da quella delle genti che abitarono il Medio
Oriente a quella delle popolazioni che vissero nel bacino del Mediterraneo, fino
ai Maia che risiedevano in America. Verso la fine del V millennio a.C. gli Egizi
erano in possesso di un calendario pratico fondato sulle osservazioni delle
apparizioni eliache (cioè precedenti al sorgere del Sole) di Sirio. Questa
stella, dopo essere stata per parecchio tempo invisibile, all’inizio dell'estate riappariva nel Cielo ad oriente poco prima dell’alba e lo faceva
proprio nel momento in cui il Nilo inondava le terre rendendole fertili. Presso i primi popoli civili ad un’osservazione
superficiale del Cielo si mescolavano idee fantastiche suggerite dalla mitologia
e dalle religioni con le quali si tentavano le prime spiegazioni dei fenomeni
naturali e la costruzione delle prime rozze immagini dell’Universo. I Sumeri,
ad esempio, e dopo di loro i Babilonesi, buoni conoscitori della matematica,
usarono metodi empirici per determinare la posizione degli astri e i loro
movimenti. Furono registrate molte osservazioni del moto della Luna e, in
particolare, le posizioni del sorgere e del tramontare di essa e dei due pianeti
più interni, Venere e Mercurio. In quel periodo i Cieli vennero divisi in zone
e furono denominate le costellazioni. Il fine di tutte queste osservazioni era quello
di fornire previsioni molto precise specialmente per quello che riguardava le
eclissi e il ritorno periodico dei pianeti in determinate zone del Cielo, cosa
questa molto importante per l’astrologia la quale, per essere credibile, aveva
bisogno di sapere in anticipo in quale posizione si sarebbero trovati gli astri
in un prossimo futuro. Le registrazioni dei fenomeni celesti erano quindi mirate
soprattutto a soddisfare le esigenze astrologiche nella convinzione che nei
Cieli si potessero trovare segni e presagi indicanti la prosperità futura dello
Stato, mentre la convinzione che il destino del singolo individuo fosse scritto
nelle stelle verrà solo in un secondo momento. Abili nell’uso degli strumenti
e ricchi di conoscenze tecniche, ma poco desiderosi di comprendere i fenomeni
del mondo naturale, gli antichi Babilonesi influenzarono i loro successori
tecnicamente, ma non concettualmente. Le origini del pensiero greco non sono diverse da
quelle di tutti gli altri popoli. Nei Greci primitivi era ancora prevalente
l’interpretazione mitica e magica dei grandi fenomeni della natura. Nel loro
sistema cosmologico la Terra era considerata un disco piatto circondato dal
fiume Oceano che si richiudeva formando la volta del Cielo. Terra e Cielo
venivano così a formare un unico corpo a cui si attribuivano dimensioni molto
limitate sia in senso orizzontale che verticale. Le idee sulla natura degli
astri non potevano che ispirarsi a fenomeni terrestri o a fantasie mitologiche.
Il carro del Sole, ad esempio, era guidato da Febo ed andava a spegnersi tutte
le sere nell’Oceano; quando suo figlio Fetonte ottenne il permesso di guidare
quel carro si lasciò prendere la mano dai focosi destrieri e deviò dal
percorso producendo in Cielo un’indelebile scia, rappresentata dalla Via
Lattea. 3.
I PRIMI MODELLI DI UNIVERSO L’inizio della civiltà greca non fu quindi
molto promettente, ma ben presto le fantasie mitologiche lasciarono il posto
alla razionalità e alla scienza. L’osservazione attenta del moto degli astri,
con il loro tramontare e riapparire dall’altra parte del Cielo, dovette
convincere i primi filosofi di quel Paese della necessità di separare la Terra
dalla volta del Cielo e lasciarla isolata nello spazio. Talete, che all’inizio
del VI secolo a.C. sembra sia stato in grado di prevedere un’eclissi di Sole
attraverso lo studio dei calendari babilonesi e caldei, pensava che la Terra
fosse un disco galleggiante sull’acqua come un pezzo di legno. Più tardi,
Anassimandro elaborò una teoria sull’origine dei corpi celesti importante se
non altro perché dimostrava che non si trattava di carri utilizzati dagli dei
per i loro spostamenti, ma di oggetti suscettibili di misurazione. Alla scuola di Talete e Anassimandro si oppose
quella dei pitagorici, meno materialista e invece più interessata alle
caratteristiche essenziali del cosmo. Pitagora stesso vedeva nel numero il
principio di ogni cosa e quindi per lui l’Universo rappresentava l’unità.
In un tempo successivo i pitagorici ritennero che i movimenti del Sole e del
Cielo notturno fossero moti apparenti e che in realtà fosse la Terra a muoversi
lungo una circonferenza. Verso la fine del V secolo a.C. Filolao arricchì il
modello di Universo ponendovi nel mezzo un grande «fuoco centrale» che non
poteva essere visto perché situato dalla parte opposta della Terra, la quale si
muoveva mostrando ad esso sempre la stessa faccia (come fa oggi la Luna nei
confronti della Terra). Secondo Filolao l’Universo era costituito di dieci
corpi che ruotano intorno al fuoco centrale: la Terra, la Luna, il Sole, i 5
pianeti, le stelle fisse e l’anti-Terra, quest’ultima necessaria per
spiegare le eclissi, ma soprattutto per rispettare un presupposto ordine
rappresentato dal numero 10, simbolo della perfezione perché in esso è
racchiuso uguale numero di pari e dispari, vi si trova l’unità con il primo
pari, vi è il primo dispari con il primo quadrato (il 4) e infine risulta dalla
somma del 3 col 7, due numeri magici simbolo di saggezza. Anche l’anti-Terra
non poteva essere vista perché sistemata fra la Terra e il fuoco centrale,
mentre gli altri corpi ruotavano con velocità decrescente verso l’esterno in
modo da riprodurre i fenomeni osservati. Il modello di Universo dei pitagorici
è importantissimo perché rappresenta il primo tentativo di mostrare una
interpretazione cosmologica sulla base di una filosofia precostituita, ma anche
di alcune osservazioni fondamentali.
Nel frattempo fioriscono dei tentativi per
giungere ad una vera e propria scienza della natura e nascono quindi alcune
cosmologie svincolate dai miti religiosi e basate esclusivamente sulla natura
materiale dei corpi celesti. Fra queste vi era quella di Empedocle secondo il
quale l’Universo è sferico e riempito di materia formata da un insieme di
corpuscoli di quattro specie diverse che lui chiama «radici delle cose», e che
in seguito diventeranno i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. Per
Democrito, viceversa, il fondamento materiale del cosmo è costituito da un
numero infinito di atomi invece che da un numero finito di elementi. Tutti gli
atomi sono dotati di movimento casuale ed eterno e quando si uniscono lo fanno
rispettando la regola che vuole che il simile cerchi il simile. La teoria
atomistica sfociava inevitabilmente nel concetto dell’infinità
dell’Universo con conseguente numero infinito di mondi, sparsi in uno spazio
senza limiti, abitati come la Terra e soggetti ad evolversi e a modificarsi. Per
Democrito nella natura non vi è forza ordinatrice, principio o divinità; nulla
è spirituale e anche lo spazio ha proprietà matematiche: esso non è altro che
il vuoto privo di qualità e assolutamente omogeneo. Le continue dissertazioni di ordine filosofico
che si inserivano nella questione della natura del cosmo ebbero l’effetto di
rendere le osservazioni sempre più accurate e dettagliate. Le apparenze, come
si sa, ingannano e quindi solo le misurazioni possono chiarire se ciò che si
osserva è reale o no. Ad esempio, la Luna e il Sole appaiono rotondi: sono
effettivamente tali? Durante le eclissi di Luna il contorno dell’ombra (che
dovrebbe essere quella della Terra proiettata dal Sole) è sempre rotondo: ciò
è conseguenza del fatto che la Terra è sferica? E le fasi lunari sono
l’effetto di una particolare reciproca posizione di Sole, Terra e Luna? Fra il
V e il IV secolo a.C. partendo da modelli capaci di inquadrare i dati
dell'osservazione, e utilizzando i risultati già noti della geometria, si riuscì a
realizzare le prime misure cosmiche. 4.
LE PRIME MISURE DEL CIELO Quando la Luna si trova nella fase di primo o
ultimo quarto e quindi appare illuminata dal Sole esattamente metà della sua
faccia rivolta alla Terra, fra Terra, Sole e Luna si forma un triangolo
rettangolo con l’angolo retto sulla Luna. Ora, misurando da Terra l’angolo
compreso fra la visuale alla Luna e quella al Sole, risulta determinato anche il
terzo angolo del triangolo e di conseguenza il rapporto fra le lunghezze dei
lati. La misura dell’angolo risultò molto imprecisa, ma il sistema in sé era
valido e consentì ad Aristarco di Samo, 300 anni prima di Cristo, di
concludere che il Sole era circa 20 volte più lontano della Luna. In realtà il
Sole è 400 volte più lontano della Luna ma il risultato, anche se molto
approssimativo, fu tuttavia sufficiente per dedurre che poiché i due astri
appaiono in Cielo di grandezza quasi uguale, il Sole, per il fatto di essere più
lontano, doveva essere molto più grande della Luna e, presumibilmente, anche
della Terra. Ora, poiché si osserva che sono i corpi più piccoli a girare
intorno ai più grandi e non viceversa, Aristarco arrivò alla conclusione che
avrebbe dovuto essere la Terra a girare intorno al Sole e non il Sole intorno
alla Terra, come appariva ad un’osservazione affrettata. Naturalmente per
avere un’idea più precisa delle effettive dimensioni dei due astri era
necessario conoscere la distanza Terra-Luna. Nella misurazione di questa distanza si cimentò
Ipparco di Nicea utilizzando un metodo assai ingegnoso suggerito dallo stesso
Aristarco. Si trattava di misurare il tempo che la Luna impiegava ad
attraversare, durante una sua eclisse totale, il cono d’ombra della Terra. Da
questa osservazione Ipparco dedusse che la Luna è circa tre volte più piccola
della Terra. Ora, poiché la Luna appare in Cielo delle dimensioni di mezzo
grado, con 720 Lune (il doppio dei gradi dell’angolo giro) poste una a fianco
all’altra, si sarebbe potuta costruire una enorme circonferenza intorno alla
Terra. La lunghezza di questa circonferenza sarebbe stata di 720 diametri
lunari, pari a 240 diametri terrestri (720:3=240). Questo valore, diviso per 2 p
rappresentava il raggio della circonferenza, ossia la distanza fra la Terra e la
Luna e corrispondeva a circa 38 diametri terrestri, una misura molto vicina al
vero. Con tale dato, unito alle misurazioni precedenti, fu possibile stabilire
che il diametro del Sole era sei o sette volte superiore al diametro terrestre.
In realtà il diametro del Sole è 100 volte maggiore di quello della Terra. Rimanevano da determinare le dimensioni della
Terra. A ciò provvide il responsabile della biblioteca di Alessandria,
Eratostene di Cirene, duecento anni prima di Cristo, quando lesse su un papiro
(il libro di quei tempi) che a Siene, una città posta quasi esattamente a sud
di Alessandria, nel giorno del solstizio d’estate, a mezzogiorno, il Sole si
trovava allo zenit, mentre ad Alessandria, nello stesso giorno e alla stessa
ora, il Sole si discostava di 7° e 12' dalla verticale. Sapendo che il Sole è
molto lontano e che quindi i suoi raggi, quando giungono a terra, possono essere
considerati paralleli, non è difficile desumere che l’angolo di 7° e 12’
corrisponde all’angolo, misurato al centro della Terra, compreso fra le città
di Siene e Alessandria. Ora, poiché quest’angolo rappresenta un cinquantesimo
dell’angolo giro (360°:7,2°=50), un cinquantesimo di tutta la circonferenza
doveva essere anche la distanza fra Siene ed Alessandria che a quel tempo era
valutata in 5.000 stadi. Pertanto, moltiplicando 5.000 per 50 si sarebbe
ottenuto la circonferenza della Terra che risultò infatti di 250.000 stadi pari
a circa 40.000 km, un valore sorprendentemente molto vicino al vero. Nonostante i successi nelle misurazioni di alcune
distanze cosmiche, le stelle rimanevano infisse sulla superficie interna di una
sfera le cui dimensioni, ancorché ignote, erano tuttavia ritenute molto grandi specie da
coloro i quali pensavano che la Terra percorresse un’orbita intorno al Sole.
Quest’orbita infatti avrebbe dovuto essere di dimensioni trascurabili
rispetto al raggio della volta celeste perché se fosse stata grande, la Terra
si sarebbe spostata in modo considerevole nel corso dell’anno e la posizione
reciproca delle stelle, viste da punti molto lontani fra loro, avrebbe dovuto
cambiare notevolmente, mentre rimaneva immutata. La conclusione logica
era che la volta celeste doveva essere molto lontana e il moto notturno degli
astri non poteva dipendere dalla rotazione della sfera sulla quale gli stessi
stavano infissi, a causa della enorme velocità periferica che ne sarebbe
derivata. Pertanto quel moto doveva essere apparente e conseguente
all’effettiva rotazione della Terra intorno al suo asse. Il modello eliocentrico di Universo si basava su
misure inquadrate all’interno di leggi fisiche e non poteva essere accettato
da chi vedeva le cose reali soggette a leggi di altra natura, come ad esempio a
quelle basate sull’armonia e sull’ordine, e fu infatti trascurato. Fu invece
curato, perfezionato e adattato ai fenomeni osservati e alle misure eseguite il
modello geocentrico, tanto è vero che questo si impose sull’altro.
Fra i più noti sostenitori dei moti celesti secondo modelli
che ponevano la Terra immobile al centro dell’Universo e tutto il resto a
girarle intorno, si ricordano Eudosso e Aristotele. Il primo riprodusse i moti
apparenti degli astri ricorrendo ad un sistema di 27 sfere concentriche e il
secondo addirittura di 55. Il modello di Aristotele si rifaceva alle idee di
Platone che distingueva il mondo perfetto e immutabile delle idee da quello
imperfetto e corrotto degli oggetti materiali. Da questa visione filosofica
delle cose derivava una distinzione di carattere qualitativo fra i corpi celesti
perfetti dove il moto circolare rappresentava l’ordine eterno, e la Terra
mutevole e imperfetta dove invece prevalevano i moti rettilinei. Così per Aristotele la perfezione dei moti
celesti era insita nella natura stessa dei corpi coinvolti in quei moti. Essi
dovevano essere formati di una sostanza speciale, una quinta essenza, detta etere
da un termine greco che significa “brillare”. Il mondo sublunare, cioè la
Terra e l’atmosfera che l’avvolge, dove gli oggetti cadono o salgono invece
che girare attorno, era costituito dai quattro elementi fondamentali di
Empedocle, cioè terra, acqua, aria e fuoco i quali, se venivano spostati dalla
loro posizione naturale, tendevano poi spontaneamente a ritornarvi movendosi
verso il basso (terra e acqua) o verso l’alto (aria e fuoco). Interessante
anche, nel pensiero di Aristotele, la superiorità del moto circolare rispetto a
quello rettilineo che per ritornare al punto di partenza obbliga a fare ricorso
a un moto contrario, mentre sulla circonferenza per tornare indietro si procede
sempre nello stesso senso.
5.
IL MODELLO TOLEMAICO DI UNIVERSO
Agli inizi del IV secolo a.C. si conoscevano
abbastanza bene i movimenti dei pianeti che in alcuni casi non apparivano
affatto ordinati. Ciò valeva soprattutto per i pianeti esterni (Marte, Giove e
Saturno), quelli che viaggiano più lentamente rispetto alla Terra la quale li
raggiunge e li sorpassa ad intervalli di tempo regolari. Visto da Terra, un
pianeta, in alcuni giorni dell’anno, sembrava rallentare il suo moto, fermarsi
e tornare indietro (moto retrogrado), quindi fermarsi di nuovo per riprendere il
moto diretto. Platone era convinto che queste anomalie potessero essere spiegate
senza rinunciare al moto perfettamente circolare che rappresentava, secondo lui,
il movimento naturale dei Cieli. La prima soluzione per giustificare questi
movimenti anomali fu individuata da Eudosso attraverso l’introduzione delle 27
sfere concentriche alle quali abbiamo già accennato. Egli immaginò di porre
ogni pianeta sull’equatore di una sfera ruotante con velocità uniforme, ma
messa a sua volta in movimento da una seconda sfera più ampia, ruotante
anch’essa sul proprio asse con velocità uniforme, anche se diversa dalla
prima. Poi eventualmente vi erano una terza e una quarta sfera collegate sempre
attraverso i loro assi di rotazione che girando con velocità differenti
imprimevano al pianeta il suo moto caratteristico. Le sfere, come abbiamo detto,
erano in tutto 27 (tre per il Sole, tre per la Luna, quattro per ciascuno degli
altri pianeti e una per le stelle fisse) e avevano tutte lo stesso centro che
cadeva al centro della Terra (anch’essa di forma sferica), ma i poli di ognuna
di esse erano differenti e di conseguenza differenti erano anche le loro
rotazioni. Sennonché le sfere di Eudosso non erano sfere
materiali, ma matematiche, quindi teoriche come teorico era il modello da lui
creato. Ciò turbò Aristotele il quale avrebbe preferito un modello fisico con
sfere reali costituite, come abbiamo detto, di un materiale adeguato alle
regioni celesti e pertanto perfetto, indistruttibile e trasparente come il
cristallo. Per raggiungere il suo obiettivo, Aristotele aggiunse al sistema di
sfere di ogni pianeta una sfera “reagente” al suo interno e una sfera
“deferente” al suo esterno, in movimento con la stessa velocità, ma in
senso opposto, in modo da assicurare l’indipendenza dei vari moti celesti. Il
sistema “meccanico” di Aristotele, con il suo elevato numero di sfere (55)
interconnesse fra loro in modo da garantire l’unità del Cosmo era collegato
ad un motore, quello che Aristotele stesso chiamò il «primo mobile». Il
modello, incredibile a dirsi, giustificava perfettamente i moti dei pianeti noti
a quel tempo. Frattanto però le osservazioni si andavano
facendo sempre più attente e raffinate e per giustificare i dati
dell'osservazione
era necessaria l’introduzione di ulteriori aggiustamenti al sistema meccanico
di Universo. Si provvide quindi ad aggiungere i cosiddetti «epicicli», cioè
circonferenze su cui venivano fatti girare i pianeti. Gli epicicli, a loro
volta, si muovevano lungo il «deferente», un altro cerchio il cui centro era
sistemato al centro della Terra. Adattando sia la velocità che le grandezze dei
cerchi ad ogni singolo caso, fu possibile ottenere una rappresentazione
matematica assai soddisfacente del movimento dei pianeti. All’incirca 150 anni dopo Cristo, il modello di
Universo fino ad allora elaborato venne sistemato e completato da quello che è
considerato l’ultimo dei grandi astronomi matematici greci, Claudio Tolomeo.
La sua opera, in tredici volumi, si intitola Mathematike
Synthasis (“Compilazione matematica”), ma è generalmente conosciuta con
il nome di «Almagesto», perché nella tarda antichità divenne nota come Magiste
Synthasis (“Grande compilazione”). I traduttori arabi trasformarono il
titolo in Al-Magjisti, che vuol dire “Il più grande”, da cui il
successivo latino Almagestum. In essa
l’astronomo alessandrino forniva una rappresentazione del Cosmo che potremmo
così sintetizzare: 1) l’Universo è finito ed eterno, limitato dalla sfera
delle stelle fisse che ruota intorno al proprio asse da oriente ad occidente; 2)
al centro vi è la Terra, sferica anch’essa, che volge verso l’alto la
parte abitata; 3) i pianeti girano su sfere di cristallo intorno al centro
dell’Universo percorrendo gli epicicli a distanze tanto maggiori quanto più
lento è il loro movimento. Ora però, anche così congegnato, il modello non
riusciva a giustificare i dati osservativi che nel frattempo erano diventati
numerosi e sufficientemente precisi. Ci si era accorti, ad esempio, di una
variazione di luminosità di alcuni pianeti che non poteva che dipendere da una
variazione della distanza nel loro movimento intorno alla Terra. Tolomeo si trovò
quindi nella necessità di complicare il precedente schema generale in maniera
determinante. La prima modifica fu quella di spostare leggermente la Terra dalla
sua posizione e quindi individuare un punto, vicino al centro dell’Universo,
ma sistemato dalla parte opposta della Terra, detto «punto equante» rispetto
al quale i centri degli epicicli sul deferente si muovevano di moto angolare
uniforme. Ora però siccome il punto equante non corrispondeva al centro
dell’Universo, ciò equivaleva a dire che i pianeti non si muovevano con moto
uniforme. Il modello di Universo costruito da Tolomeo era
obiettivamente complicato, tuttavia i dati di osservazione relativi ai vari
pianeti venivano rappresentati assai bene al punto da poter affermare che il
mondo doveva essere fatto proprio come il modello faceva vedere. E’ da notare
che il modello di Universo costruito dai greci era molto simile a quelli
costruiti da altre civiltà sparse in tutto il mondo a dimostrazione del fatto
che con le osservazioni effettuabili a quel tempo non era possibile inventare
qualche cosa di sostanzialmente diverso da ciò che seppe esprimere la cultura
greca. Il modello dei greci ovviamente si accordava bene
anche con quanto veniva riportato dalle Sacre Scritture e venne infatti adottato
dalla Chiesa di Roma. Esso venne scelto anche perché aveva la prerogativa di
lasciare, oltre la sfera delle stelle fisse, tutto lo spazio che si voleva per
sistemare Inferno e Paradiso. La cosa sorprendente è che il modello
geocentrico, nonostante fosse un modello sbagliato (la Terra gira intorno al
Sole e non viceversa), funzionava perfettamente. Oggi conosciamo il motivo di
questa apparente contraddizione: sappiamo infatti che non esiste un sistema
assoluto di riferimento, ma che tutti i moti sono relativi. Per «sistema di riferimento» si intende
l'insieme dei corpi che, nello studio di un moto, vengono considerati fermi. A
seconda di come viene definito il sistema di riferimento si ottengono valori
diversi degli spostamenti degli oggetti in movimento: così, quando ad esempio
vogliamo prendere in esame il movimento di un'automobile, consideriamo ferma la
Terra, e quando vogliamo definire il percorso seguito da un bambino che corre
avanti e indietro per i corridoi del treno in viaggio, consideriamo fermo il
treno. Ma nello studio di un moto, è indifferente adottare l'uno o l'altro dei
sistemi di riferimento possibili. Nel caso del bambino sul treno ad esempio si
potrebbe considerare ferma la Terra e non il treno: i movimenti del bambino
troverebbero lo stesso una descrizione precisa, anche se più complicata. Allo stesso modo, per descrivere il moto dei
pianeti, si preferisce, con ovvia semplificazione, considerare fermo il Sole, ma si
potrebbe considerare ferma la Terra: i moti risulterebbero in questo caso più
contorti, ma non per questo errati. Il sistema eliocentrico non deve quindi
essere ritenuto più "vero" di quello geocentrico, ma semplicemente più
"comodo". Ora però, a mano a mano che si raffinavano le
osservazioni relative al moto dei corpi celesti, si scoprivano fenomeni che, per
essere inquadrati nel modello geocentrico, rendevano quest'ultimo sempre più
complicato e la complessità, in campo scientifico, è un brutto segno. Una
delle prerogative dei modelli scientifici deve essere infatti la semplicità
perché la semplicità rende più agevole la comprensione del fenomeno che il
modello stesso deve descrivere. 6.
IL MODELLO COPERNICANO DI UNIVERSO Nel 1543 uscì alle stampe un libro dal titolo «De
revolutionibus orbium coelestium» dell'ecclesiastico polacco Niccolò
Copernico, in cui veniva descritto il modello eliocentrico di Universo; in
virtù di esso alcuni calcoli, necessari a prevedere la posizione
dei pianeti in Cielo, risultavano più agevoli rispetto a quelli che era
necessario eseguire con il modello geocentrico. L'opera di Copernico venne quindi presentata in
un primo momento come semplice modello matematico, cioè come strumento utile
per descrivere il moto dei corpi celesti. Esso però, in seguito, si rivelò una
costruzione ricca di razionalità e tale da sovvertire dalle fondamenta l'intera
concezione cosmologica, come si era andata consolidando nei secoli. Non è chiaro quali fossero le reali intenzioni
di Copernico, cattolico integralista e aristotelico convinto, ma il fatto che il
suo scritto venisse pubblicato solo dopo la sua morte, pone qualche dubbio sul
vero significato che l'autore intendesse dare al suo lavoro. La stessa Chiesa
Cattolica non riuscì a percepire immediatamente il pericolo insito nell'opera
di Copernico, mentre ad esempio le Chiese Protestanti di Lutero e di Calvino,
condannandola immediatamente e senza mezzi termini, si dimostrarono da questo
punto di vista più lungimiranti. La
struttura eliocentrica del mondo, contrabbandata come innocuo modello
matematico, poté quindi circolare liberamente in Europa fino alla fine del
sedicesimo secolo. Il modello però, come abbiamo detto, rivelò ben presto
tutto il suo reale potenziale euristico e permise di sviluppare i concetti che
racchiudeva in sé confrontandoli meticolosamente con le osservazioni. Il lavoro
di ricerca e di interpretazione svolto da Giordano Bruno e soprattutto da
Galileo Galilei, travalicò il pensiero stesso di Copernico, e finì per
sconvolgere i principi della tradizione e della fede, scatenando la reazione
della Chiesa di Roma. Con la Terra sistemata in posizione periferica e non al
centro dell’Universo dove era sempre stata, non era più ben chiaro, ad
esempio, dove dovessero sistemarsi Inferno e Paradiso. L'opera di Copernico
venne allora messa all'indice (donec corrigatur = fino a quando non sarà
corretta) e vi rimase fino al 1820! Isaac Newton, lo scopritore della legge di
gravitazione universale, avrebbe potuto diventare il fondatore della cosmologia
moderna se non avesse commesso un grave errore di meccanica nel tentativo di
salvare l’immobilismo cosmico. Egli, come tutti i suoi contemporanei, pensava
che le stelle fossero fisse e immutabili e poiché egli stesso aveva scoperto
che i corpi materiali, liberi di muoversi, si attraggono reciprocamente e
tendono a collassare verso una massa centrale, per non contraddire il principio
della staticità del Cosmo, sostenne che l'Universo doveva essere infinito e
popolato uniformemente di stelle così che la forza risultante, e quindi il
movimento complessivo, fosse nullo. Ma se una stella rimane in equilibrio perché
attratta in uguale misura da un numero infinito di altre stelle la stessa cosa
dovrebbe valere per la Terra la quale dovrebbe stare ferma perché anch’essa
attratta in tutte le direzioni da un numero infinito di stelle. In verità il modello di Universo di Newton si
rivelò, nei fatti, pieno di contraddizioni. Fra l’altro, se lo spazio fosse
realmente infinito e uniformemente popolato da un numero infinito di stelle,
ogni singola stella sarebbe attratta da una parte con una forza infinita e dalla
parte opposta con la stessa forza infinita: infinito meno infinito tuttavia non
fa zero, ma indeterminato. La soluzione del problema sta nel riconoscimento che
le stelle non sono fisse: esse si attraggono ma contemporaneamente si muovono
descrivendo traiettorie ellittiche proprio come fanno i pianeti e le comete. Si
dovrà aspettare ancora molto tempo prima di mettere in moto quello che ancora
oggi chiamiamo «firmamento», cioè il luogo degli oggetti fermi.
Sarà necessaria la teoria della relatività
generale di Einstein per entrare in possesso del quadro concettuale
indispensabile per la formulazione del primo modello di Universo di sicuro
valore scientifico; prima di descriverlo tuttavia è necessario soffermarsi sulle
osservazioni che consentirono la sua costruzione. 7.
LE OSSERVAZIONI DEL XIX SECOLO Nonostante i ripetuti tentativi fatti in passato,
solo nel 1838 l'astronomo tedesco Friedrich Bessel fu in grado di determinare,
con il sistema della parallasse, la prima distanza precisa di una stella. Con
quella misura, che rappresentò fra l'altro la prova certa del moto della Terra
intorno al Sole, ebbe inizio l'astronomia moderna come scienza esatta e si aprì
la strada alle successive scoperte. Alcuni anni prima John Herschel
(1738–1822) aveva osservato che le stelle hanno un proprio movimento peculiare
che appare tanto più evidente quanto più sono vicine; in tal modo egli
suggeriva a Bessel quale fosse la stella più adatta per la determinazione della sua
distanza. Dal nostro punto di vista la scoperta più
interessante si ebbe nel 1859 con il fisico Gustav Kirchhoff e con il
chimico Robert Bunsen i quali riuscirono ad interpretare le righe degli spettri
di assorbimento delle stelle. Vediamo di che cosa si tratta. Già Newton aveva sperimentato che la luce
bianca di un corpo incandescente, se viene fatta passare attraverso un prisma di
materiale trasparente, si scinde in vari colori (i colori dell'arcobaleno),
dando luogo a quello che comunemente viene chiamato uno «spettro».
Successivamente, nel 1815, lo scienziato tedesco Joseph von Fraunhofer aveva
osservato che lo spettro solare, ottenuto facendo passare la luce attraverso una
stretta fessura posta davanti al prisma trasparente, risultava solcato da una
miriade di righe scure (egli stesso ne aveva contate più di 500) delle quali
però non seppe dare una giustificazione. Finalmente Kirchhoff e Bunsen, in
seguito ad un meticoloso lavoro sperimentale, scoprirono che gli elementi
chimici, portati ad incandescenza, emettono luce che, costretta a passare per
una fenditura prima di attraversare il prisma trasparente, genera una serie di
righe caratteristiche di vari colori, diversa da elemento ad elemento. I due
scienziati tedeschi osservarono, in altre parole, che ogni elemento chimico
possiede una specie di personale «impronta digitale» molto tipica. A quel
punto, analizzando la luce delle stelle, fu possibile determinare la presenza in
esse di svariati elementi e quindi, in pratica, di determinare la loro
composizione chimica. La scoperta, a quel tempo, destò enorme
sensazione anche perché solo qualche anno prima il filosofo francese Auguste
Comte, padre del positivismo, predisse che l'uomo non sarebbe mai stato in grado
di scoprire di che cosa sono fatte le stelle. L'affermazione di Comte invita
alla prudenza coloro i quali asseriscono che l’uomo non potrà mai raggiungere
determinati risultati in campo scientifico. La scoperta che le stelle erano costituite degli
stessi elementi chimici presenti sulla Terra, unita all'osservazione che quelle
stesse stelle erano dotate di movimento proprio, portò al convincimento che
esse dovessero nascere e morire e che quindi non potevano essere eterne.
Tuttavia, queste osservazioni non furono ancora sufficienti ad indirizzare la
mente dei fisici verso l'idea di un Universo in evoluzione. E nemmeno la scoperta dei processi di
trasmutazione nucleare fu determinante per convincere gli astronomi che il
Cosmo doveva essere in continuo mutamento. Le trasmutazioni nucleari, scoperte
all'inizio di questo secolo, producono annichilimento della materia la quale
lentamente, ma inesorabilmente, si trasforma in energia: quindi le stelle,
all'interno delle quali avvengono queste trasformazioni della materia,
inevitabilmente si consumano e sono pertanto destinate a morire. Se si considera che in biologia la teoria
evoluzionistica si era affermata da oltre cento anni, il fatto che fino a poco
tempo fa vi fosse ancora qualche eminente scienziato che riteneva che l'Universo
dovesse essere fisso e immutabile, ha semplicemente dell'incredibile. 8.
LA NUOVA TEORIA DELLA GRAVITAZIONE Si arriva così al 1917, anno in cui A.
Einstein presentò il suo modello di Universo: esso traeva origine dalla
teoria della relatività generale, la quale non aveva tuttavia come
obiettivo la cosmologia. La teoria della relatività generale è infatti una
teoria del campo gravitazionale, una teoria cioè che descrive la forza di
gravità in modo nuovo e, per questo motivo, viene anche chiamata «Teoria di
Einstein della gravitazione». La forza di gravità, secondo Einstein, è la
conseguenza della deformazione che subisce lo spazio a causa della presenza in
esso della materia. La materia quindi deformerebbe lo spazio e lo renderebbe
pieno di avvallamenti e gobbe. Che cosa significa? Significa, innanzitutto, che
lo spazio a tre dimensioni che noi percepiamo direttamente con i nostri sensi in
realtà dovrebbe avere una dimensione in più. Vediamo di spiegare perché. Pensiamo ad un foglio di carta disteso: esso
rappresenta uno spazio a due dimensioni; ebbene, se noi volessimo ripiegare
questo foglio avremmo bisogno di una terza dimensione entro cui poterlo fare.
Allo stesso modo lo spazio a tre dimensioni che ci sta davanti agli occhi, per
potersi ripiegare e modellare ad avvallamenti e gobbe ha bisogno di una quarta
dimensione entro cui poterlo fare. A questo punto forse è opportuno chiarire
meglio cosa si intende per spazio a quattro dimensioni. Anche se non è possibile visualizzare uno spazio
a quattro dimensioni (già a tre è difficile), è possibile tuttavia farsi
un'idea di esso ricorrendo ad un’analogia. Immaginiamo allora di avere a che
fare con un individuo bidimensionale (cioè piatto), che vive su una superficie
piatta. E' chiaro che questo individuo potrà spostarsi sulla superficie in
tutte le direzioni, ma non potrà mai alzarsi al di sopra o scendere al di sotto
di essa né percepire o misurare alcunché fuori dalla superficie su cui è
costretto a strisciare. Il piano è l'unica estensione che si presenta con
immediatezza ai suoi sensi. Per lui, ad esempio, dire "sopra o sotto la
superficie" non avrebbe alcun significato, proprio come per noi, esseri
tridimensionali, non ha senso dire "sopra o sotto lo spazio". Ora, l'individuo bidimensionale che vive su una
superficie piana di dimensioni infinite (o che ritiene tali), se fosse
intelligente, con l'aiuto della sola logica, si potrebbe rendere conto della
possibilità di esistenza di altri tipi di superfici, per esempio incurvate in
una terza dimensione come la superficie di una sfera o quella di una sella. Non
solo, all'individuo bidimensionale intelligente non dovrebbe nemmeno essere
impossibile dimostrare, con misure di vario genere, quale tipo di superficie
potrebbe eventualmente essere quella su cui vive. Se disegnasse, ad esempio, sulla superficie su
cui giace, dei triangoli di notevoli dimensioni, e ne misurasse, con la massima
cura, gli angoli interni, potrebbe trovare una somma pari a 180° oppure diversa
da 180°. Nel primo caso si convincerebbe di essere su una superficie piatta,
sulla quale vale la geometria euclidea, mentre nell'altro caso capirebbe di non
trovarsi su una superficie piana e precisamente avrebbe la prova di trovarsi su
una superficie sferica, qualora misurasse valori superiori a 180° e su una
superficie iperbolica (cioè a forma di sella), qualora misurasse valori
inferiori a 180°. Sulla superficie della sfera, come sulla superficie di una
sella, non vale la geometria euclidea e pertanto la somma degli angoli interni
dei triangoli non è 180°. Ebbene, quello che abbiamo detto per gli esseri
bidimensionali, vale anche per noi tridimensionali. L'intuizione più immediata,
quella che meglio risponde all'esperienza quotidiana, è che lo spazio in cui
viviamo sia uno spazio tridimensionale che potremmo definire «piatto», cioè
privo di curvatura, che si estende ovunque all'infinito. Tuttavia questa
intuizione basata sul buon senso è errata e dimostra fra l'altro che non è
attraverso il buon senso (e ancor meno attraverso il senso comune), che l'uomo
è mai riuscito a capire come funziona il mondo. Per capire come stanno
effettivamente le cose in natura è necessario elaborare delle astrazioni e
procedere a delle misurazioni. Come la superficie piana non è l'unica
superficie a due dimensioni che esista, così lo spazio piatto non è l'unico
spazio a tre dimensioni che si possa immaginare. I matematici, ad esempio, sono
in grado di descrivere spazi a quante dimensioni si desidera (tre, quattro,
dieci, cento), e spazi piani, curvi o contorti in vario modo, creando un
vastissimo capitolo della geometria. Tuttavia lo spazio fisico reale, quello cioè in
cui viviamo, è uno solo e non è un'astrazione matematica. Quale degli spazi
che si possono teoricamente immaginare è quello effettivo in cui operiamo? La
risposta, come sempre nella scienza, non potrà che venire dall'osservazione e
dalla sperimentazione. Vediamo innanzitutto in che modo Einstein riuscì ad
intuire che lo spazio in cui viviamo non può essere uno spazio a tre sole
dimensioni. Fino ai tempi di Einstein la gravitazione era
stata interpretata come un'azione a distanza di un corpo più pesante su uno più
leggero. Per Newton infatti un corpo massiccio, per esempio il Sole, genera una
forza, la forza di gravità appunto, la quale attrae i corpi più piccoli i
quali però, girandogli attorno evitano di cadergli addosso. Secondo Einstein,
invece, quello della forza di gravità è un concetto che deve essere rivisto:
due corpi si attraggono perché rotolano in uno spazio pieno di avvallamenti e
buchi. Si potrebbe anche immaginare un corpo massiccio che incurva, con la sua
presenza, lo spazio intorno a sé, alterandone la geometria: nella depressione
generata dal corpo di grosse dimensioni rotola quindi un corpo più piccolo che
gli passa vicino, dando l'impressione di venire attirato da questo. Ecco perché serve una quarta dimensione. Le tre
dimensioni dello spazio ordinario, per potersi incurvare, hanno bisogno,
evidentemente, di una dimensione aggiuntiva entro cui poterlo fare, così come
una superficie piana a due dimensioni, ha bisogno, per potersi incurvare, di
occupare una terza dimensione. Torniamo ora alla nuova interpretazione della
gravitazione fornita da Einstein. Qualora un oggetto di piccole dimensioni, che
si muovesse di moto rettilineo ed uniforme, si trovasse a passare in vicinanza
di un oggetto massiccio, a causa della depressione provocata da quest'ultimo,
accelererebbe il moto e devierebbe dal suo cammino rettilineo, dando
l'impressione di venire da questo attirato. L'esistenza di una forza attrattiva
fra i corpi è quindi solo una sensazione, perché in realtà non si tratta di
una forza in senso stretto, ma della manifestazione dello spazio-tempo
deformato. Lo spazio tetradimensionale si chiama
spazio-tempo in quanto Einstein individuò proprio nel tempo la quarta
dimensione dello spazio. Il tempo quindi non già in quanto tale e distinto
dallo spazio, ma come dimensione spaziale vera e propria da considerare insieme
con le altre tre in un'unica entità fisica. Lo spazio-tempo non è, tutto sommato, un
concetto di difficile comprensione: in esso ci imbattiamo anche nella vita di
tutti i giorni. Quando ad esempio diamo appuntamento a qualcuno, specifichiamo
non solo il luogo, ma anche il tempo, altrimenti non ci si riuscirebbe mai ad
incontrare nello stesso luogo e nello stesso tempo. Nella teoria della relatività generale, materia,
spazio e tempo risultano quindi unificati in un'unica realtà. Einstein riuscì
infine a dare rigore matematico alla sua intuizione fornendo una serie di
equazioni del campo gravitazionale in grado di esprimere con esattezza l'entità
della curvatura dello spazio-tempo, causata dalla presenza della materia. La nuova teoria, tuttavia, per essere accettata,
doveva essere in grado di fare anche delle previsioni, fornendo dei progetti di
verifica. Il primo esperimento di controllo fu suggerito dallo stesso Einstein:
quando la luce di una stella posta dietro al Sole ne sfiora il bordo, dovrebbe
venire attratta da questo. In realtà la luce non viene attratta dal Sole: è lo
spazio, intorno all’astro centrale, che risulta ripiegato e la luce non fa
altro che seguire l’avvallamento dando la sensazione di deviare dalla linea
retta. Einstein calcolò con precisione di quanto avrebbe dovuto essere questa
deviazione. Il 29 maggio 1919 l'astronomo inglese Arthur Eddington, in occasione
di un'eclissi totale di Sole, verificò puntualmente la previsione contenuta
nella teoria della relatività generale: i fotoni, percorrendo lo spazio-tempo
curvo intorno al Sole, deviano dalla loro traiettoria rettilinea esattamente del
valore previsto da Einstein. Non è frequente trovare un inglese disposto ad
avvallare le idee di un tedesco! 9.
IL MODELLO EINSTEINIANO DI UNIVERSO A questo punto Einstein pensò di applicare la
sua teoria all'Universo intero. Sennonché, la teoria della relatività generale
è una teoria matematica, e non una teoria fisica, e fra i due tipi di teorie vi
è una notevole differenza. Una teoria matematica infatti è sempre
“giusta”, a meno che i calcoli non siano sbagliati, mentre una teoria fisica è
giusta solo se descrive correttamente i fenomeni. Vediamo di rendere chiaro
questo concetto con un esempio. Si immagini di lanciare un sasso: quale
traiettoria percorrerà nell'aria e dove andrà a cadere? La traiettoria del
sasso potrebbe essere descritta da un matematico il quale, con carta e penna,
potrebbe fornirci le equazioni che ne definiscono il moto, ma non sarebbe mai in
grado di descrivere l'effettivo percorso seguito dal sasso e dirci dove andrà
realmente a cadere se non gli forniamo qualche indicazione aggiuntiva, come ad
esempio la direzione verso cui viene lanciato e la forza con cui viene lanciato.
Sono queste condizioni esterne (dette con termine tecnico «condizioni al
contorno») che permettono di applicare a casi concreti formule matematiche
altrimenti generiche. In altri termini una teoria fisica non è altro che una
teoria matematica, nella quale gli enti matematici astratti sono stati riempiti
di contenuto facendo loro corrispondere opportune grandezze fisiche. Ritorniamo ora alla teoria della relatività
generale. E’ evidente che si tratta di una teoria matematica destinata quindi
a produrre una varietà praticamente infinita di Universi, se non vengono
fissate precise condizioni fisiche iniziali. Tuttavia, la scelta dei parametri
fondamentali da cui partire è un’operazione tutt'altro che banale. Innanzitutto è indispensabile che i parametri
iniziali non siano né troppi, né troppo pochi, perché solo in questo modo le
equazioni potranno fornire soluzioni chiare e precise. Se le condizioni iniziali
fossero troppe, come nel caso dei fenomeni meteorologici, diverrebbe
difficilissimo, se non addirittura impossibile, applicare con successo le
equazioni; se viceversa le condizioni iniziali fossero troppo poche o nessuna,
le equazioni darebbero soluzioni generiche che non dicono nulla. Einstein partì dal presupposto che l'Universo
fosse omogeneo e statico. Con il termine di «omogeneo» si intende che
l'Universo potrebbe essere immaginato con la materia distribuita uniformemente
come si trattasse di un gas le cui strutture materiali invece che da molecole e
atomi siano rappresentate da galassie e stelle. Per quanto riguarda la «staticità»,
Einstein riteneva, come già Newton e come la maggior parte dei fisici e degli
astronomi del suo tempo, che l'Universo fosse immobile ed eterno. Ma, alle condizioni di cui sopra, le equazioni
del campo gravitazionale non fornivano le soluzioni desiderate e pertanto lo
stesso Einstein le modificò inserendovi il cosiddetto «termine cosmologico»,
un parametro ad hoc, tale da ottenere la soluzione statica cercata.
Questo termine aggiuntivo avrebbe dovuto rappresentare una forza, di natura
sconosciuta, in grado di bilanciare l'attrazione gravitazionale che, se avesse
agito da sola, avrebbe fatto collassare l'Universo intero su sé stesso.
Einstein in questo caso aveva torto e in seguito riconobbe egli stesso di aver
commesso "la più grande sciocchezza" della sua carriera scientifica. Nel 1922, il fisico sovietico Alexander Friedmann
concluse che la soluzione delle equazioni di Einstein portava inevitabilmente al
risultato di un Universo in equilibrio instabile. L'Universo doveva quindi
cambiare col tempo, o espandendosi o contraendosi. Era un po' come se gli
individui bidimensionali, menzionati in precedenza, avessero scoperto non solo
di vivere su una superficie curva, ma anche che tale superficie si andava
lentamente modificando. Friedmann dimostrò che se la materia presente
nell'Universo fosse stata al di sotto di una certa quantità, l'Universo sarebbe
stato «aperto» e destinato ad espandersi indefinitamente; se invece
nell'Universo vi fosse stata materia in quantità superiore ad un certo valore
minimo, esso sarebbe stato «chiuso» e destinato a contrarsi. Quando Friedmann rese noti i suoi calcoli non vi
era ancora la prova dell'espansione dell'Universo. Questa verrà solo sette anni
più tardi quando, nel 1929, Edwin Hubble osservò il cosiddetto «red shift»,
cioè lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie
lontane. Interpretati come effetto Doppler relativo alla luce, tali spostamenti
indicano che le galassie sono in costante recessione. L’effetto Doppler è un fenomeno che riguarda
il suono e che venne descritto nel 1842 dal fisico austriaco Christian Doppler.
Tutti noi abbiamo sperimentato che quando una sorgente sonora si avvicina emette
un suono più acuto, quando si allontana emette un suono più grave rispetto a
quando non si muove. Ciò dipende dal fatto che le onde sonore si «schiacciano»
quando la sorgente è in avvicinamento e quindi la frequenza, cioè il numero di
onde per unità di tempo ne risulta aumentato e il tono del suono diventa più
alto; se la sorgente si allontana l’onda si «distende», la frequenza
diminuisce, e di conseguenza il tono del suono si abbassa. L’effetto Doppler può verificarsi per
qualsiasi fenomeno di natura ondulatoria, quindi in particolare anche per la
luce, che è una forma di energia che si propaga per onde.
Le osservazioni relative al red shift indicano
anche che lo spostamento si accentua progressivamente con l'aumentare della
distanza: ciò significa che quanto più una galassia è lontana da noi, tanto
più velocemente viaggia. Da questa osservazione si potrebbe concludere che noi
ci troviamo al centro dell'Universo ma, smentiti una prima volta dal modello
geocentrico di Tolomeo, e successivamente dall'aver posto il sistema solare al
centro della nostra Galassia, si preferì, in questo caso, adottare un
atteggiamento di maggior prudenza e cercare di individuare una soluzione
diversa. Per farci un'idea della struttura dell'Universo
quale si presenta alla luce della teoria della relatività e delle evidenze
osservative riprendiamo l'analogia con la superficie sferica. Immaginiamo questa
volta il nostro individuo bidimensionale sistemato su una superficie di grandi
dimensioni come potrebbe essere la superficie della nostra Terra. Se questo
individuo si guarda intorno vede una superficie piatta e molto uniforme (a parte
le locali strutture di dettaglio) estendersi in tutte le direzioni, così che
potrebbe farsi l'idea di essere al centro di qualche cosa. Ma non è così. La
superficie di una sfera, infatti, non ha centro (si badi, la superficie non ha
un centro, non così invece la sfera intera che nel suo interno ha un centro). Allo stesso modo, noi esseri tridimensionali, se
ci guardiamo intorno, e osserviamo le galassie uniformemente distribuite in
tutte le direzioni (a parte le locali strutture di dettaglio), abbiamo la
sensazione di stare al centro di qualche cosa, ma è solo una sensazione:
l'Universo, in realtà, non ha un centro. Da questo ragionamento Einstein ricavò
il cosiddetto «principio cosmologico», cioè il concetto secondo il quale
tutti gli osservatori, ovunque si trovino nell'Universo, dovrebbero osservare,
intorno a loro, più o meno lo stesso scenario. Il principio cosmologico rimane valido anche se
l'Universo è in espansione. Per renderci conto di ciò immaginiamo ancora una
volta la nostra sfera che ora si gonfia lentamente: la sua superficie si
espande, e quindi le sue dimensioni aumentano con il tempo. Se ci trovassimo su
un punto qualsiasi di essa, vedremmo intorno a noi tutti gli oggetti
allontanarsi, e allontanarsi tanto più velocemente quanto più sono lontani da
noi. In una situazione del genere si è tentati di concludere che ci si trova al
centro di una qualche esplosione. Ma è solo un'illusione. Qualsiasi osservatore
infatti, in qualunque punto della superficie sferica si trovasse, vedrebbe
allontanarsi da sé tutti gli oggetti che gli stanno intorno. Quello che vale per una superficie curva a due
dimensioni vale anche per un Universo curvo a tre dimensioni: qualsiasi
osservatore, sistemato in un punto qualsiasi, osserverebbe intorno a sé più o
meno lo stesso tipo di distribuzione delle galassie e tutte queste galassie
rivelerebbero pressappoco lo stesso tipo di recessione (minore quelle vicine,
maggiore quelle lontane). Possiamo quindi concludere che non vi sono
nell'Universo posizioni privilegiate. Nel 1948 il fisico russo naturalizzato americano
George Gamow insieme a due suoi studenti, Ralph Alpher e Robert Hermann, sviluppò
un modello relativo all'origine dell'Universo che già era stato proposto,
qualche tempo prima, nelle sue linee generali, dall'abate G. Lemaître. Il
ragionamento che portò Gamow alla formulazione del suo modello è il seguente:
se le galassie oggi si allontanano fra loro, vuol dire che un tempo lontano esse
erano molto più vicine di quanto non siano attualmente. Se si tornasse quindi
abbastanza indietro nel tempo, si dovrebbe trovare tutta la materia e tutta la
radiazione concentrata in uno spazio molto piccolo, forse addirittura in un
punto. Gamow era una persona molto spiritosa che rimase
famoso, fra l'altro, per gli scherzi attuati ai danni dei suoi stessi colleghi.
In occasione della pubblicazione della sua teoria sull'origine dell'Universo
chiese al fisico Hans Bethe, che non aveva partecipato in alcun modo alla
definizione delle nuove idee, di firmare l'articolo insieme a lui e ad Alpher.
Dalle iniziali dei nomi dei tre scienziati, risultarono così le lettere greche a,
b
e g:
un'ottima sigla per un modello dell'origine dell'Universo. Al modello, in seguito, venne dato il nome di «Big
bang» (Grande scoppio), ma in senso spregiativo e ironico, dal fisico inglese
Fred Hoyle, il quale nel frattempo insieme ai colleghi tedeschi Hermann Bondi
e Thomas Gold, aveva presentato una teoria alternativa a quella dell'Universo in
evoluzione. Il modello di Hoyle, Bondi e Gold, prese il nome di «Modello di
Universo in stato stazionario» e rappresentò l'ultimo disperato tentativo di
salvare l'idea dell'immobilismo cosmico. 10.
UN MODELLO ALTERNATIVO DI UNIVERSO Per non cadere in contraddizione con i fondamenti
primi della relatività generale - pensò Hoyle - l'aspetto dell'Universo su
larga scala dovrebbe rimanere immutato non solo nello spazio, ma anche nel
tempo. Il principio cosmologico dovrebbe quindi avere un carattere più
generale, e cioè quello che lui chiamò «principio cosmologico perfetto». I fautori del modello dello stato stazionario,
pur convenendo sul fatto che l'Universo è in espansione, ciò nondimeno
ritenevano che la densità della materia avrebbe dovuto rimanere costante nel
tempo e quindi l’Universo intero presentarsi uniforme nello spazio e nel
tempo. Pertanto, a mano a mano che le galassie si allontanano fra loro e lo
spazio diviene sempre più vuoto, nuove galassie si sarebbero dovute formare per
compensare il diradarsi delle vecchie. La teoria dello stato stazionario prevede quindi
una cosa a prima vista assurda: la creazione di materia dal nulla. Esisterebbe
infatti, secondo Hoyle, un «campo creazionale» (in analogia con il «campo
gravitazionale») generato dalla materia già esistente, in grado di creare
nuova materia. Il ritmo con cui avverrebbe la creazione di nuova materia sarebbe
tuttavia lentissimo e comunque tale da rendere impossibile il suo rilevamento. Se quindi da un lato il modello stazionario pone
il problema sconcertante della creazione di materia dal nulla, dall'altro ne
evita altri, non meno imbarazzanti, come quello dell'origine. L'Universo,
secondo Hoyle, non avrebbe quindi avuto inizio, né avrà fine: esso è sempre
esistito ed esisterà per sempre. Nella storia della scienza, tuttavia, è capitato
spesso che le teorie più originali e convincenti siano state poi impietosamente
demolite da osservazioni insignificanti e fortuite. Così avvenne anche per la
teoria dello stato stazionario. Nel 1965 due tecnici della società americana
dei telefoni "Bell", Arno Penzias e Robert Wilson, si imbatterono in un
fastidioso sibilo che disturbava un nuovo tipo di telecomunicazione via
satellite che essi stessi stavano sperimentando. Si trattava di un segnale radio
di debole intensità proveniente da tutte le direzioni e captabile a qualunque
ora del giorno e della notte. I due tecnici americani non si resero conto del
significato della loro scoperta e tentarono di eliminare il segnale spurio
ricorrendo ad una serie di perfezionamenti sulle apparecchiature riceventi. Il segnale in realtà non era altro che la
radiazione residua dell'esplosione primordiale, quella che in seguito venne
chiamata «radiazione cosmica di fondo». Essa ha le caratteristiche di una
radiazione ad onde corte (cioè è un'onda radio) corrispondente a quella che
produrrebbe un oggetto che si trovasse alla temperatura di 3 K (cioè a 270 °C
sotto lo zero). Questa radiazione era già stata prevista dallo stesso Gamow in
base al suo modello e doveva rappresentare la «radiazione fossile» del Big
bang, cioè il residuo delle altissime temperature raggiunte nelle prime fasi di
vita dell'Universo, di quell’Universo che in seguito si sarebbe andato
raffreddando lentamente e gradualmente per circa 15 miliardi di anni. La radiazione cosmica di fondo non trovava invece
giustificazione coerente all'interno del modello dello stato stazionario, che
dovette pertanto essere abbandonato. In verità, la scoperta di Penzias e
Wilson, per la quale i due tecnici ricevettero (forse non del tutto
meritatamente) il premio Nobel, non fu l'unica evidenza osservativa contraria al
modello dello stato stazionario. In precedenza, si era ad esempio osservato che
le quasar, i corpi celesti di dimensioni di poco superiori a quelli delle
stelle, ma che irradiano quantità colossali di energia, sono più abbondanti a
grande che a piccola distanza. Ora, poiché guardare in lontananza corrisponde a
guardare indietro nel tempo, si doveva concludere che l'aspetto dell'Universo di
miliardi di anni fa era diverso dall'attuale, smentendo, in questo modo, il
principio cosmologico perfetto al quale si era appellato Hoyle. In definitiva, il modello che meglio riusciva ad
inquadrare e a giustificare le osservazioni era proprio quello del Big bang.
Anche questo modello, tuttavia, presentava una serie di carenze e di
interrogativi di non poco conto. Uno di questi era, ad esempio, il problema
relativo alla "singolarità".
Risalendo indietro nel tempo, suggerisce il modello, si
dovrebbe vedere l'Universo contrarsi e divenire sempre più caldo e sempre più
denso: si arriverebbe così ad un punto in cui le leggi della fisica classica
non sarebbero più in grado di descriverne il comportamento. Questo in condizioni di
temperatura e densità eccezionali viene però descritto correttamente
all'interno di nuove leggi fisiche, quelle inquadrate nella cosiddetta «fisica
quantistica». In effetti, attraverso le leggi della fisica quantistica e
attraverso le nuove scoperte relative all'impiego delle alte energie, oggi è
possibile tentare la descrizione delle prime fasi di vita dell'Universo ed
immaginarne anche una vera e propria creazione in senso fisico. Certo, le risposte attualmente non sono né
facili, né univoche; tuttavia il semplice fatto di aver cominciato ad
affrontare anche questo problema in termini razionali, senza cioè dover fare
ricorso ad interventi soprannaturali, rappresenta, già di per sé, un progresso
rispetto agli atteggiamenti del passato.
PS. Fred Hoyle è morto il 22 agosto 2001 all'età di 86 anni essendo nato nel
1915 in un villaggio dello Yorkshire in Inghilterra. Era considerato il "bastian
contrario" della scienza perché aveva confutato le principali teorie
convenzionali: da quella del Big Bang a quella sull'origine della vita.
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